DOMENICA DI PASQUA – RISURREZIONE DEL SIGNORE
- On 4 april, 2021
Letture: At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
Gesù è risorto, amici! Siamo entrati nel deserto per vedere la bellezza di Dio sul Tabor, ci siamo mischiati alla folla di Gerusalemme per seguire il Maestro. Eccoci, ora a correre al sepolcro.
La resurrezione di Gesù, che Giovanni evita accuratamente di descrivere, è tutta una corsa. L’inizio, ad essere onesti, è davvero sconfortante: Maria di Magdala si muove ancora nel buio e sente vicina la presenza del crocifisso; quando arriva alla tomba vede la pietra ribaltata e – stranamente – non entra, non verifica. Corre dai discepoli e trae delle conclusioni affrettate: qualcuno ha rubato il corpo di Gesù.
Grande Maria! Vede dei segni ma non li sa interpretare. Di più: quando – più avanti – entrerà nel sepolcro, non resterà turbata e piena di fede come Giovanni e Pietro ma, imperterrita, continuerà a piangere, anche davanti al Risorto! Com’è difficile uscire dal dolore!
Maria trae conclusioni affrettate, è tutta presa dalla sua percezione, non si ferma, non entra, non capisce, non approfondisce. Piange, e basta. E questo pianto le impedisce di riconoscere le fattezze del Maestro. Intendiamoci: ci sono persone con la lacrima facile ed altre, al contrario, col cuore indurito. Di per sé piangere è una gran bella cosa, è segno di sensibilità e di compassione. I mistici ortodossi considerano le lacrime come un dono dello Spirito Santo. Ci sono lacrime e lacrime. Quelle splendide, di conversione, di pentimento, di dolore, che lavano l’anima di Pietro, dopo aver incrociato lo sguardo di Gesù nel cortile del Sinedrio;
quelle purificatrici della prostituta che si mette a lavare i piedi di Gesù; le lacrime stesse di Gesù che si commuove alla vista del dolore per la morte di Lazzaro. E le lacrime inutili, come quelle già citate delle donne di Gerusalemme, e quelle inconsolabili di Maria. Il limite del suo pianto, segno di un profondo dolore che vogliamo rispettare, è che le impedisce di accorgersi della verità.
La conversione al Risorto è difficile, difficilissima. Occorre allontanarsi dal proprio dolore. Condividere la gioia cristiana significa superare il dolore che ci rende tristi. Non c’è che un modo per superare il dolore: non amarlo, non affezionarvisi. La gioia cristiana è una tristezza superata. Ma resistenze, dubbi, mancanza di fede pesano sul nostro cuore. Un’esperienza dolorosa nell’infanzia, una serie di eventi che ci hanno deluso possono davvero impedirci di entrare nella gioia cristiana, che non è un’emozione, ma una scelta consapevole.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Una corsa affannosa, mentre Gerusalemme è ancora avvolta nel sonno, e il sole ha cominciato a scaldare le pietre color ocra con cui sono costruite le abitazioni e le mura che avvolgono la città. Ma, sapete, l’età (Pietro è sicuramente più vecchio di Giovanni) e la teologia (Pietro, l’autorità, il ruolo, deve sempre star dietro a Giovanni, l’amore e la creatività) fanno arrivare sì che Giovanni giunga per primo al sepolcro, e aspettare poi Pietro che arriva ansimando, senza fiato.
Ah, tra l’altro, non c’è scritto ”Giovanni”, ma ”il discepolo che Gesù amava”. Non che Giovanni soffrisse di delirante presunzione, per carità. Si tratta solo di un trucco letterario: visto che ognuno di noi è amato e può diventare discepolo, ognuno è chiamato a correre al sepolcro. È questa l’esperienza delle Chiesa: correre al sepolcro e sapersi aspettare gli uni gli altri. Abbiamo ritmi diversi, siamo splendidamente diversi, amici. La Chiesa, come vedremo, non è né la compagnia dei bravi ragazzi, né il club delle anime devote. La Chiesa è lunga e larga e profonda, fatta di persone diverse, di discepoli diversi. La diversità è suo patrimonio irrinunciabile, come Gesù ci testimonia nell’improbabile scelta degli apostoli.
La Chiesa è nata diversa, è nata nell’improbabile sfida di tenere insieme persone tanto diverse. Giovanni e Pietro corrono, il carisma e l’autorità, la creatività e la struttura. Non si contraddicono, non si pestano i piedi, non si contrappongono. E si aspettano per entrare.
Guai a chi contrappone autorità e carisma, guai a chi snobba la fatica dell’autorità sognando un’improbabile Chiesa anarchica fondata sul generico buonismo che tutti ci accomuna, (finché non ci si pesta i piedi!).
Guai all’autorità che pensa di irrigidire lo Spirito, dimenticando che l’autorità è sempre e solo al servizio del discernimento, e che Dio non chiede il permesso per annunciare la Parola.
Grande Chiesa, Chiesa di Cristo, quella che si aspetta, che si accoglie, che tiene in equilibrio creatività e regola, passione e struttura, emotività e ragione. E lì cosa vedono? Nulla. Delle bende, il sudario. Anzi, ad essere precisi, secondo la teoria di alcuni studiosi, il termine che Giovanni usa per indicare le bende sembra suggerire un certo ordine, un lavoro fatto con dovizia, cosa che esclude il trafugamento affrettato del cadavere di Gesù. Appunto. Giovanni vede e crede.
Non vede Gesù, non sente la sua voce, non ha prove. Vede un segno e crede. Come osserveremo nelle apparizioni di Gesù risorto, lo schema seguito è sempre lo stesso: una situazione di tristezza e sconforto, la presenza di Gesù che non viene riconosciuto, un segno che apre al riconoscimento.
Come se gli evangelisti volessero dirci che, oggi, solo attraverso dei segni possiamo riconoscere Gesù risorto. Qui, per Giovanni, il segno è rappresentato dalle bende vuote.
Ma, scusate, i segni della presenza di Gesù risorto, tra i discepoli, non si chiamano ”sacramenti”? Appunto.
Buona Pasqua, di cuore.