VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)
- On 12 februari, 2023
Molti, in ogni parte del mondo, anche nei nostri paesi, nelle nostre città, tra le nostre case, si definiscono “credenti non praticanti”. Personalmente, la ritengo una presa di posizione un po’ strana: è come dire “sono innamorato di una persona, ma ci sto alla larga”, oppure “sono un buongustaio, ma non mangio” o ancora “sono un sommelier astemio”. Ad ogni modo, rispetto le scelte di ognuno in materia religiosa, ci mancherebbe altro; anche perché spesso, dietro queste prese di posizione – oltre che evidenti scelte di comodità personale – ci sono errati comportamenti da parte di noi uomini e donne di chiesa e di fede che hanno contribuito a far allontanare dalla pratica religiosa varie persone. E di questo, credo dobbiamo fare continuamente ammenda di fronte a Dio e ai fratelli.
Faccio, invece, un po’ più di fatica ad accettare un altro atteggiamento, che peraltro non è una presa di posizione voluta e deliberata, ma diviene una sorta di comportamento abituale che purtroppo è duro da scalfire, e che alla radice ha qualcosa di profondamente errato, o – per usare una terminologia cara al Vangelo di Matteo – di “ingiusto”; dove per “giustizia” si intende il nostro trovarci alla presenza di Dio ed essere da lui “giudicati” o “giustificati” in base alla nostra fede. Una giustizia che – per citare proprio il brano di Vangelo di oggi – “se non supererà quella degli scribi e dei farisei”, ci impedirà di “entrare nel regno dei cieli”. Questo atteggiamento di presunta giustizia personale possiamo esprimerlo in maniera diametralmente inversa a quello descritto in precedenza: non più “credenti non praticanti”, ma “praticanti non credenti”.
Com’è possibile – ci viene da pensare – che uno possa vivere una pratica religiosa senza essere credente? Sarebbe ancor più in contraddizione rispetto al credente che non pratica. Eppure, non pensiamo che questo atteggiamento non sia diffuso, e non solo in passato, dove la pratica religiosa era maggiore: è un atteggiamento (ma preferirei parlare di rischio) nel quale incorriamo più frequentemente di quanto si possa pensare.
Ed è ciò che capitava alla “giustizia degli scribi e dei farisei” che Matteo fa sentenziare a Gesù quasi all’inizio del brano che abbiamo proclamato, e che diventa la discriminante, il punto di interpretazione di quello che il Maestro ci vuole insegnare. In che cosa consisteva la “giustizia degli scribi e dei farisei” che Gesù ci invita a superare? Per comprendere bene questo concetto, è sufficiente che facciamo un salto nel vangelo di Luca, dove c’è una parabola molto conosciuta, quella del pubblicano e del fariseo al tempio, nella quale quest’ultimo si credeva “giusto” perché osservava scrupolosamente tutti i precetti e i comandamenti della Legge di Mosè: si riteneva, quindi, un “praticante D.O.C.”, soprattutto esplicitando la propria bravura rispetto alla vita di peccato del pubblicano lì presente. Sappiamo bene come termina la parabola: con il pubblicano “reso giusto” dal suo pentimento e il fariseo perfetto praticante scartato dalla logica del regno predicata da Gesù. Il problema di fondo dei farisei (e con loro di alcuni scribi) era che ritenevano di poter ottenere la salvezza non per grazia di Dio, ma in virtù della pratica perfetta e ossessiva della Legge di Mosè, per compiere con la quale, a questo punto, non c’era più bisogno nemmeno di Dio: segui per filo e per segno i comandamenti e i precetti della Legge, e della grazia di Dio che salva non c’è più bisogno. Se a questo, poi, aggiungi il senso di superiorità, di differenziazione (“fariseo” significa proprio questo, “separato dagli altri”) rispetto alla massa di presunti disonesti e peccatori, la miscela diviene esplosiva: abbiamo praticanti non bisognosi di Dio e che disprezzano gli altri. E che, soprattutto, di quella meravigliosa realtà che era la Legge data da Dio al suo popolo nel deserto attraverso Mosè, non avevo capito assolutamente nulla: perché di quella che era una legge di liberazione hanno fatto diventare un’occasione di sfruttamento, di oppressione, di potere e di superiorità umana.
È in quest’ottica che dobbiamo comprendere, allora, quelle che in apparenza sembrano affermazioni contrapposte: “Avete inteso…ma io vi dico”, quasi come se Gesù fosse venuto a rinnegare più di mille anni di storia del suo popolo con il proprio Dio.
No, Gesù non rinnega proprio nulla: non rinnega la sua formazione e la sua fede ebraica. Cerca, piuttosto, di “darle compimento”, ovvero di riportarla al suo spirito originario e profondo mirato a una sola cosa: ricostruire il rapporto tra Dio e l’uomo, infranto e addirittura eliminato da un’osservanza scrupolosa della Legge e da una pratica religiosa formalista e minimalista che aveva eliminato Dio dal cuore dell’uomo.
Tutto va compreso nell’ottica della nuova Legge di Gesù, proclamata all’inizio del discorso della Montagna, ovvero le Beatitudini, che non sono indicazioni di comportamento morale osservando le quali si giunge alla salvezza, ma sono una proclamazione di fatto della grazia di Dio, che ci salva e ci ha salvati indipendentemente dalle nostre opere.
Dio non vuole che siamo dei bravi credenti praticanti; Dio vuole che prendiamo atto del suo amore che ci rende “beati”, ci vuole felici, e che lo amiamo di conseguenza con una serie di atteggiamenti che non si riducono a un’osservanza formale di precetti e di norme, ma che vanno molto più in profondità e che hanno, come conseguenza, un amore sempre più grande verso i nostri fratelli.
Allora, non si tratta solo di non uccidere nessuno: occorre rispettare tutti, evitando di vivere di rabbie e di rancori che possono sfociare in violenza da un momento all’altro, o di considerare gli altri tutti “stupidi” e “ignoranti”. E questo, anche e soprattutto se andiamo a messa tutte le domeniche.
Non si tratta più solo di evitare tradimenti, in una relazione di coppia: occorre considerare l’altro o l’altra come persona di pari dignità, da rispettare nella sua dignità, nei suoi tempi, nei suoi modi di pensare, nei suoi modi di vestire, nei suoi modi di parlare, e soprattutto nel dono più grande che Dio ci ha fatto, la libertà.
Perché “desiderare” una persona nel proprio cuore e farlo in maniera scandalosa non significa provare delle passioni (fatto peraltro genuinamente umano), ma significa volersi impossessare di lei, fare in modo che ci appartenga, che sia “cosa nostra”, che sia un oggetto tra le nostre mani. E questo, capita anche tra i cristiani che vanno a messa tutte le domeniche.
E non si tratta più nemmeno di “giurare o spergiurare” e di aggiungere parole su parole a giustificazione dei nostri comportamenti o per esaltare le nostre buone opere: poche parole, “sì al sì” e “no al no”, dette con sincerità, schiettezza e sobrietà, ché di ciarlatani che ci incantano con le parole sono piene le aule di ogni palazzo del potere. E tra loro, molti si dicono cristiani praticanti.
Ma cristiani “credenti”, lo sono? Lo siamo realmente?