XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)
- On 19 november, 2023
La prudenza, per essere tale, richiede anche il calcolo del rischio. La ragione addotta dal servo pigro sembra a prima vista un ragionamento giusto; è più sensato conservare quel poco che si ha che non perderlo. Il servitore si crede nel giusto quando non osa rischiare e quando seppellisce il talento; La logica del padrone della parabola è però diversa. La salvezza passa attraverso il rischio. Il dono che il servitore ha ricevuto non dà salvezza da solo; la quantità dei talenti non può costituire una sicurezza o addirittura un alibi. Il dono è per fruttificare. Chi non rischia non può guadagnare.
La S. Messa oggi è offerta per Alfredo.
Avere del talento, nel nostro parlare quotidiano, significa possedere qualità particolari, doni da far fruttare, da condividere, su cui investire.
Ma, in realtà, la parabola di oggi non considera i talenti come delle capacità innate ricevute da Dio, ma come dei doni che i discepoli devono custodire e vivificare in attesa del ritorno del Signore nella pienezza dei tempi. La parabola è molto chiara, al riguardo, i talenti vengono dati «a ciascuno secondo la sua capacità» (Mt 25,15).
Cosa sono, allora?
Nel tempo dell’attesa i servi, cioè noi, sono chiamati a custodire e a far fruttare i talenti, le mine, che il Signore ha loro consegnato: il vangelo, lo Spirito, il potere di curare, consolare, perdonare, riconciliare…
Non sono cose da poco, quelle che il Signore ci affida, ma molto preziose!
Una mina vale cento denari; un denaro, ricordate?, è la paga di un operaio per una giornata di lavoro. Un talento equivale alla paga di vent’anni. Quindi il servo che ne riceve cinque, di talenti, ha un capitale da gestire di oltre due milioni degli attuali euro. Mica noccioline!
È preziosissimo ciò che ci viene consegnato, in questo tempo di attesa fra la resurrezione del Signore e il suo ritorno nella pienezza dei tempi, abbiamo gli strumenti per rendere presente il regno di Dio, per farlo crescere. Non siamo qui a guardare il cielo col naso per aria (At 1,11) ma ad annunciare il vangelo ad ogni vivente (Mc 16,15).
Abbiamo i talenti necessari per farlo. E con gioia. Ma ad una condizione: darci da fare.
Il cuore della parabola è proprio il contrasto fra operosità e pigrizia, fra intraprendenza e passività.
I due servi che restituiscono il capitale dei talenti raddoppiato e ricevono l’elogio da parte del mercante, nuovi incarichi e responsabilità e, soprattutto, la partecipazione alla gioia del padrone.
Il servo che ha ricevuto un talento, invece di impegnarlo, di farlo fruttare, lo seppellisce.
Ma quel che più sconcerta è la ragione di tale azione: ha paura della reazione del padrone. La sua idea di Dio è tragica: è un duro che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso.
La reazione del padrone è molto dura, onestamente. Ognuno, alla fine, incontra il Dio che si rappresenta. Il Dio che ama. O di cui ha paura.
Se si ostina nel credere in un Dio duro e severo, incontrerà un Dio duro e severo, perché il suo cuore gli impedisce di andare oltre al suo pregiudizio distruttivo e cupo. Sappiamo bene, e quante critiche abbiamo ricevuto lungo i secoli noi cristiani per questa ragione!, che corriamo continuamente il rischio di gettare sul volto di Dio una maschera, di proiettare su di lui le nostre paure, le nostre ansie, i nostri demoni.
Gesù, comunque sia, ci tiene a farci sapere che non possiamo piacere a Dio e condividere la gioia di far fruttare i talenti del padrone se dimoriamo nella paura.
Un ultimo appunto per evitare malintesi: l’affermazione finale del padrone che toglie il talento al servo pauroso per darlo a quello talentuoso appare come un’ingiustizia, un’inutile azione di forza. La misteriosa frase conclusiva, forse aggiunta da Matteo, ne svela il senso: il ricco diventa sempre più ricco perché sa far fruttare i suoi denari. Il povero, il pavido, in questo caso, perde anche quel poco che ha perché paralizzato. Non una punizione, quindi, ma la constatazione che ci vuole spirito d’iniziativa e determinazione per far crescere i guadagni. Quanta più iniziativa ci dovrebbe essere, allora, per far crescere una cosa preziosa come il regno di Dio!
Possiamo rovinarci la vita a causa della paura.
Anche la vita di fede. Paura di sbagliare, di essere giudicati. Ci sentiamo incapaci di fare qualcosa. A volte questa paura ci viene instillata sin da piccoli, è figlia della nostra disistima, non sappiamo valutare correttamente cosa siamo e quanto valiamo. Altre volte sono le vicende della vita che ci asfaltano, ci rendono sospettosi, prudenti fino alla paralisi.
Anche rispetto a Dio possiamo avere un’idea sbagliata di lui e di noi: egli è colui che ci giudica, che ci definisce, che ci pesa. Dio è buono e bravo, certo, ma sempre pronto a sottolineare cosa in me non funziona. Perciò non osiamo spendere la vita per lui: non ne vale la pena, non si accontenterà mai o, peggio, sono io ad essere sbagliato.
Invece Dio si fida talmente di te da affidarti il Regno.
Forse è troppo ottimista, non tutti nasciamo imparati, non tutti siamo costanti e capaci, né dei geni della finanza spirituale. Sappiamo bene quanti danni, come comunità e come singoli, siamo stati capaci di fare tradendo il vangelo! Diventando ostacolo e non trasparenza che fa vedere Dio!
E come si vede la differenza fra le comunità cristiane in cui gli appartenenti si danno da fare, collaborano, agiscono, sono presenti con idee e con tempo a disposizione rispetto a quelle che si lasciano vivere, che avanzano per inerzia, che delegano tutto al parroco o al pastore…
Che bello poter dire: oggi do una mano a Dio alla costruzione del Regno!
Siamo drammaticamente liberi. Siamo liberi di scegliere di non scegliere, paralizzati dalla paura. Esiste la paura, fa parte della nostra natura umana.
Accogliere il dono del vangelo, della comunità, della partecipazione all’azione di evangelizzazione, per diventare testimoni di un mondo altro, fa uscire da noi stessi il meglio, ci rende capaci, ci rende persone nuove.